Ambiente e Clima
Un trattato Onu per l'emergenza plastica

Approvato all’unanimità il Trattato contro l’inquinamento da plastica

Il 2 marzo scorso, dopo giorni di trattative, l’Assemblea delle Nazioni Unite per l’Ambiente (Unea), riunitasi a Nairobi, ha approvato all’unanimità il Trattato contro l’inquinamento da plastica. Un passo storico che segna un prima e un dopo sulla strada per la salvaguardia del pianeta e che stabilisce l’importanza di intervenire in una situazione di emergenza globale utilizzando strumenti globali.

Del resto, i tentativi dei governi di combattere un fenomeno che sta assumendo proporzioni gigantesche si sono dimostrati del tutto fallimentari. A dirlo sono i numeri che raccontano una tendenza contraria a quella a cui ci piace pensare nell’era green.

La plastica si trova ormai ovunque: nei nostri mari e nei nostri fiumi ma anche sulla nostra tavola, nel sale da cucina, persino nel nostro sangue e nei nostri polmoni. Tracce di microplastiche sono state infatti trovate nel sangue umano dagli scienziati della Vrije Universiteit di Amsterdam, con effetti ancora ignoti.

«Non sappiamo, cosa queste entità chimiche – come le definisce Greenpeace – produrranno nel lungo termine sulla salute umana ed anche l’impatto sul cambiamento climatico: plastica uguale a petrolio e quindi ad emissioni di CO2.»

La British Plastics Federation, evidenzia inoltre che il 99% di tutta la plastica mondiale deriva dalla trasformazione di combustibili fossili.

Per questo, l’Unea, nella capitale kenyiota, ha elaborato un documento che impegna 175 Nazioni a produrre entro il 2024 uno strumento giuridicamente vincolante per porre fine all’inquinamento da plastica.

Il monouso, l’avversario più pericoloso

L’avversario più pericoloso è il monouso, uno dei simboli più iconici del boom economico occidentale.

Oggi la plastica riservata all’usa e getta è il 36% di tutta la produzione globale. Un controsenso se si pensa che si tratta di un materiale destinato a durare nel tempo e che, invece, viene adoperato per pochi minuti, a volte secondi, per poi disperdersi nell’ambiente e tramutarsi in minuscole particelle, le microplastiche, che finiscono in mare. A farne le spese sono cetacei, tartarughe marine, pesci e uccelli: 700 specie marine indispensabili per la biodiversità.

Il falso mito del riciclo

«Le misure nazionali fino ad oggi proposte si sono rivelate sparuti tentativi non omogenei che hanno puntato soprattutto sul falso mito del riciclo», commenta Giuseppe Ungherese, responsabile campagna Inquinamento di Greenpeace e autore del libro “Non tutto il mare è perduto”.

Basti pensare che di tutta la plastica prodotta nella storia umana solo il 10% è stato riciclato correttamente, il 14 è stato bruciato e il 76% è finito in discariche o disperso nell’ambiente. La via maestra, dunque, sembra essere quella della riduzione dei rifiuti e questo Trattato sarà tanto più forte quanto più agirà in tal senso. Una strada di certo tutta in salita, la cui meta sembra ancora lontana.

Dal 2000 al 2015 è stato prodotto il 56% di tutta la plastica fabbricata dall’intera storia umana, raggiungendo circa 370 milioni di tonnellate nel 2019. Se la curva di crescita esponenziale dovesse seguire l’attuale traiettoria, i volumi prodotti ogni anno nel mondo raddoppierebbero entro il 2030-2035: dai circa 11 milioni di tonnellate annue attuali si passerebbe ai 29 previsti per il 2040. È come se ogni metro quadro di costa di tutto il mondo fosse ricoperto da 50 chili di rifiuti.

Gli effetti delle microplastiche sulla salute umana

Tracce di microplastiche sono state trovate nel sangue umano dagli scienziati della Vrije Universiteit di Amsterdam con effetti ancora ignoti. I rischi per l’uomo derivanti dalle microplastiche possono essere di natura fisica, chimica e microbiologica:

  • I rischi fisici sono dovuti alle ridotte dimensioni delle microplastiche e nanoplastiche che possono attraversare le barriere biologiche, come la barriera intestinale, ematoencefalica, testicolare e persino la placenta e causare danni diretti, in particolare, all’apparato respiratorio e all’apparato digerente.
  • I rischi chimici derivano dalla presenza di contaminanti come i plasticizzanti (ftalati, bisfenolo A) o i contaminanti persistenti (idrocarburi policiclici aromatici, policlorobifenili), presenti nelle microplastiche. Infatti, le microplastiche possono essere veicolo di sostanze potenzialmente pericolose di natura organica o inorganica. Molti contaminanti, essendo interferenti endocrini possono provocare danni a carico del sistema endocrino, causare problemi alla sfera riproduttiva e al metabolismo.
  • Per quanto riguarda i rischi microbiologici, le microplastiche possono trasportare, attaccati alla loro superficie, microrganismi in grado di causare malattie: batteri come Escherichia coli, Bacillus cereus e Stenotrophomonas maltophilia, sono stati rilevati in microplastiche raccolte al largo delle coste del Belgio. Studi sperimentali hanno dimostrato che una volta assorbite, le microplastiche si accumulano in fegato, reni e intestino, con la capacità di provocare stress ossidativo, problemi metabolici, processi infiammatori, danni al sistema immunitario e neurologico.

L’origine della plastica

C’è poi un altro aspetto spesso trascurato quando si parla di plastica e su cui fa luce la British Plastics Federation: il 99% di tutta la plastica mondiale deriva dalla trasformazione di combustibili fossili. Questo vuol dire che, se fosse una nazione, la plastica occuperebbe il quinto/sesto posto come principale fonte di gas serra e potrebbe raggiungere nel 2050 il terzo posto sul podio a fianco dell’India.

A farne le spese sono innanzitutto le comunità locali vicino agli impianti, spesso persone fragili e disagiate che vivono lontane dai centri urbani. Nella Lousiana esiste un’area conosciuta come Cancer Alley (la via del cancro), per la forte concentrazione di stabilimenti di produzione di plastica dove si registrano tassi elevati di tumori, oltre a numerosi problemi respiratori.

Nei Paesi dell’Africa e del Sud-Est asiatico è nata la figura dei waste pickers, ovvero di coloro che sono addetti alla separazione dei rifiuti e che lavorano in vere discariche a cielo aperto. Parliamo anche qui di persone molto povere, che vivono in zone marginali e accettano di sottostare a condizioni di lavoro disumane e malsane.

«È in questi Paesi che scarichiamo un’enorme quantità di rifiuti. Posti come Malesia, Vietnam, Kenya e Nicaragua che non hanno impianti di smaltimento adatti e che finiscono per sversare i rifiuti nell’ambiente, peggiorando la qualità della vita di popolazioni che già vedono compromesso il loro diritto a vivere in un ambiente sano » dice Ungherese, che nel suo libro parla di «colonialismo dei rifiuti». Sono loro che pagano la nostra smania di consumo.

Urge pertanto un Trattato globale che affronti un’emergenza globale con strumenti globali e vincolanti.